venerdì 23 maggio 2014

Mnèsicle intervista MARIANO NUZZO


L’associazione Mnèsicle continua con costanza nel suo lavoro e vi offre la possibilità di conoscere meglio l’architetto restauratore Mariano Nuzzo che ha tenuto lo scorso marzo un interessantissimo seminario su un proprio intervento di restauro, quello relativo al Campanile Monumentale della Basilica del Corpus Domini di Maddaloni che ha ricevuto la menzione speciale in occasione del Premio Domus Restauro e Conservazione nel 2012.
Quella dell’architetto Nuzzo è un’esperienza consolidata nel campo del restauro architettonico, lo attestano i diversi riconoscimenti ricevuti e il percorso forbito che lo ha condotto ad essere oggi architetto restauratore. Nominato Ispettore onorario per la tutela e la vigilanza dei Beni Architettonici e Paesaggistici del 2011, ha insegnato presso l’Università di Napoli, di Ferrara e del Salento, ha compiuto più esperienze su cantieri significativi ed è autore di disparati testi  tra i quali “L’Architetto restaura” , “La città indifferente” e molti altri.

Felici di aver regalato a chi ci segue l’occasione di conoscere  un po’ più da vicino, un professionista che, come pochi,  è stato in grado di farci rivivere una gran bella esperienza di cantiere,  proponiamo a seguire una breve intervista rilasciata dall’architetto, cogliendo ancora una volta l’occasione per ringraziarlo della disponibilità mostrata. 


Architetto, come si è avvicinato al restauro architettonico?

Ho avuto la fortuna di incontrare durante il mio percorso universitario il professore Riccardo Dalla Negra, oggi docente all’Università degli Studi di Ferrara, che svolge con dedizione la sua attività di architetto restauratore militante. La sua forte passione mi ha contagiato dal 1998 quando ho cominciato a seguire con interesse sempre crescente i suoi corsi universitari, coadiuvandolo nell’attività didattica, di ricerca e lavoro. La sua fiducia mostrata nei miei confronti mi ha spinto ad adeguare una preparazione di giovane architetto alle diverse esigenze che i progetti di restauro architettonico richiedevano sia durante le esercitazioni a cui erano sottoposti gli allievi dei corsi, sia nei progetti a lui affidati. Alle fasi progettuali era sempre accompagnato un approccio diretto col cantiere.

Ho avuto la possibilità di mettere a confronto “il dire e il fare”. Il mio percorso di accademico si è poi arricchito, frequentando i corsi di Dottorato di ricerca e della Scuola di Specializzazione in Restauro dei monumenti, che hanno stimolato la mia curiosità nell’affrontare con particolare cura alcuni aspetti legati al settore dei Beni Culturali e perfezionato la mia attitudine al restauro.


Uno dei suoi lavori di restauro che le è rimasto nel cuore qual è stato e perché?

Tutti i restauri che ho condotto sono rimasti nel mio cuore. Resto ‘contagiato’ dall’opera sulla quale intervengo anche dopo il lavoro e soffro nel vederla modificata in maniera impropria o abbandonata. Ogni bene culturale da restaurare diventa per me un paziente da curare dal momento in cui mi viene affidato. Lo osservo prima per conoscerlo, durante per curarlo e dopo con atteggiamento critico per comprendere come avrei potuto fare meglio, rendendo il mio intervento meno visibile possibile, ma nello stesso momento efficace. Sono molto critico verso me stesso e di ogni mio restauro riesco a cogliere sempre i punti deboli di qualche lavorazione per la quale avrei potuto dedicare un’attenzione maggiore. Non per questo però rinnego le scelte progettuali fatte, perché sono sempre frutto di un lungo processo di studio, analisi e riflessione.
L’esperienza di restauro che ha lasciato in me un ricordo intenso è senza dubbio quella del Restauro del Campanile monumentale della Basilica del Corpo di Cristo di Maddaloni (2011/2012). Il progetto di restauro è stato voluto e commissionato dalla Diocesi di Caserta per far fronte a dichiarate esigenze di riabilitazione strutturale e di restauro architettonico del monumento. L’intervento progettuale di restauro ha teso prioritariamente a restituire sicurezza statica ed a conservare la qualità architettonica del Campanile, opera di riconosciuto interesse culturale. Il progetto ha mirato inoltre a restituire l’architettura del monumento, celata dal degrado naturale dei materiali, dalle azioni antropiche, dagli avvenimenti calamitosi ordinari ed eccezionali.

Il restauro è stato inteso come momento di conoscenza dell’architettura, attraverso le sue diverse fasi di conoscenza storica e di approfondimento tecnologico delle metodologie e dei materiali utilizzati. Ogni intervento realizzato è stato finalizzato al rispetto del testo originale e del principio della distinguibilità, calibrata in ragione dei materiali dei toni di colore e della distanza dall’osservatore. Nel dettaglio, invece, si è definita la consistenza strutturale dell’intervento, utilizzando materiali chimico-fisico compatibili e, soprattutto, valutando l’aspetto della tollerabilità temporale dei nuovi materiali impiagati, al fine di evitare che il restauro potesse prevalere sull’autentico nel medio e lungo termine.

In ogni caso, le integrazioni di nuovi elementi architettonici sono state trattate dichiaratamente con forme espressive contemporanee, nel rispetto degli attuali orientamenti scientifici sul restauro. Ogni opera realizzata è stata calibrata mediante verifiche diagnostiche “in situ” e test di efficacia dell’intervento progettato, in modo da tenere preventivamente e costantemente sotto controllo l’esito del lavoro e di valutare puntualmente le ricadute economiche.
  
                                                                                                                                                                      
                                     
Si è trattato di un intervento che ha suscitato particolarmente il mio interesse non solo per qualità del “monumento” ma anche per gli attori coinvolti. In primis il Vescovo di Caserta S.E. Mons. Pietro Farina, persona eccezionale, colta e intraprendente che, dovendo affrontare la messa in sicurezza e il restauro di una torre campanaria in stato di pericolo nel centro di Maddaloni ha avuto il coraggio di “fidarsi di un giovane architetto restauratore che aveva bussato alla sua porta solo con un rotolo di carte ben disegnate”. Ho avuto inoltre l’onore di condurre il cantiere con la consulenza scientifica della Scuola di Restauro dei Monumenti di Roma “La Sapienza”, da cui provengo, voluta dalla Diocesi di Caserta.

Il contatto diretto col Professor Giovanni Carbonara e i consigli che il Professor Riccardo Dalla Negra non mi ha fatto mai mancare hanno indirizzato la mia opera verso un risultato più accorto. A questo si è accompagnato un rapporto di fiducia, stima e collaborazione con l’architetto Salvatore Buonomo, allora funzionario, oggi Soprintendente per i Beni Architettonici di Caserta e Benevento, che ha sempre seguito e sostenuto ogni fase del cantiere. Non meno interessante è stato il rapporto con i cittadini, che attraverso l’iniziativa “Il cantiere dialoga con la Città” hanno espresso la propria opinione partecipando al dibattito sul restauro del monumento. L’esito del restauro non è stato una sorpresa, non un risultato scontato ma frutto del dialogo con tutte le realtà coinvolte a vario titolo.

Si tratta di un caso che si potrebbe definire di “restauro sociale” che ha tenuto conto delle necessità del monumento, del contesto ambientale ma anche dell’opinione collettiva, considerata non secondaria in un opera di ampio impatto urbano
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Qual è, tra i tanti, il progetto di restauro da lei maggiormente condiviso e perché?

Il progetto di restauro che maggiormente apprezzo per l’intensità dei temi trattati è quello del Corridore di Prato “Cassero Medievale”. L’Amministrazione Comunale di Prato negli anni ’90 decise di ripristinare l’antico camminamento che dalle mura portava al Castello dell’Imperatore. Il progetto fu affidato agli architetti Dalla Negra e Ruschi e si concluse alla fine del 2000. L’idea degli architetti fu quella di realizzare un intervento di conservazione delle mura antiche rimaste in piedi e di integrazione architettonica per restituire continuità all’antico tracciato ormai compromesso, facendo in modo che il Corridore diventasse un percorso espositivo per mostre temporanee.

Si tratta di un’opera che i progettisti hanno saputo armonizzare con le necessità del recupero urbano, delle nuove funzioni espositive, integrative del restauro architettonico e individuare una nuova destinazione d’uso del monumento adeguata alla Città di Prato. È un restauro che ho vissuto non da progettista ma da utente fin dal primo giorno della sua inaugurazione, un’opera che ho avuto la possibilità di vedere viva e fruita anche negli anni successivi all’intervento, nel corso di numerose manifestazioni di arte e cultura locale. Si tratta di un lavoro completo di restauro che ha avuto tempi di gestione definiti ed una destinazione d’uso chiara che gli consente oggi di dare vita alla città e da essa trarre la vita mantenendo la sua dignità storica. 

Le soddisfazioni che si è tolto quali sono state? (Un po’ di autocelebrazione non fa male!)

Le soddisfazioni che vivo sono legate al completamento di ogni cantiere di restauro che mi dà gioia nel vedere rivivere l’opera che è stata oggetto delle mie cure per lunghi mesi. Gli anni di sacrificio nel comporre e condurre un intervento di restauro vengono ricompensati dal sorriso della gente comune che riscopre il monumento, ritrovando in esso tracce di un passato che gli appartiene.

Quali sono, a suo avviso, le problematiche del settore? Che soluzioni proporrebbe per migliorare la situazione?

Il settore del restauro vive momenti di forte interesse negli ultimi anni che però spesso lo destabilizzano nelle fasi operative. L’interesse di molti operatori non adeguatamente formati rischia di compromettere il primato nazionale con esiti molto discutibili e lontani dagli orientamenti attuali, anche se condotti ad opera d’arte. In generale il gap che noto è lo scollamento tra la teoria e la prassi. In ambito accademico il dibattito è molto vivo e spinto, si è ormai in grado di apprezzare ogni momento storico della nostra tradizione costruttiva e culturale.

Gli studi e le ricerche vengono condotti con notevole attenzione e rigore. Purtroppo i risultati di tali avanzamenti scientifici non riescono ad essere adeguatamente riversati nel mondo professionale e in quello degli organismi di controllo. Oltre alla problematica delle imprese edili in alcuni contesti capita che gli architetti specializzati in Restauro architettonico devono fare i conti con istituzioni pubbliche che hanno competenze inadeguate alla valutazione dei progetti e alla sorveglianza dei cantieri di restauro. Sebbene i recenti concorsi per l’accesso al ruolo di funzionario nel Ministero dei Beni Culturali abbiano richiesto specializzazioni in restauro dei monumenti e di dottorati di ricerca nello stesso settore (o affini), si deve notare che tali competenze oggi rappresentano una porzione minoritaria rispetto alla moltitudine in servizio che viene spesso da esperienze molto diverse.

Molti tecnici hanno acquisito una conoscenza basata sulla prassi d’ufficio che, sebbene abbia una spinta operatività, non riesce a colmare la profonda carenza teorica e tecnica che consente di individuare il giusto limite che ogni restauratore dovrebbe porsi. Sarebbe inoltre opportuno che il MiBACT avesse non solo un ruolo di controllo, ma soprattutto un compito di dialogo, indirizzo e accompagnamento alla buona prassi del restauro.

Quale consiglio darebbe alle nuove leve e a tutti quelli che sognano di diventare architetti restauratori?

L’architetto restauratore è un architetto. Questa professione richiede un grosso rispetto per l’uomo e i suoi prodotti culturali. Ogni architetto deve essere spinto dalla curiosità di conoscere e capire a fondo la realtà nella quale è chiamato ad operare. A quanti si avvicinano al restauro suggerirei prima di non dimenticare di essere architetti per leggere l’opera nel suo insieme e comprendere la sua logica costruttiva, evolutiva e di rapporto col territorio. 

Poi suggerirei di dimenticare di essere architetti per comprendere che il bene architettonico è prioritario rispetto ad ogni possibile scelta di carattere personale che possa lasciare il segno distinguibile e prevalente del suo autore. Il compito del restauratore a mio parere è quello di restare dietro le quinte, di apparire il meno possibile per dare spazio all’autenticità dell’opera. Dove sarà necessario ‘rammendare’ si rammendi, ma con l’uso di materiali semplici, poco invasivi e degradabili in tempi compatibili alla preesistenza storica. 
   

Romina Muccio

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