martedì 24 settembre 2013

Un approccio al cantiere di restauro

Definire il più corretto approccio che architetto e impresa possano avere a cospetto di un progetto di restauro non è cosa semplice, infatti, diverse sono le insidie che possono celarsi nella professione di restauratore architettonico.
Questa difficoltà è confermata dal fatto che, “sbagliare” nel restauro, non significa lasciare sul manufatto storico su cui si interviene un segno, bensì lasciare il peso di un errore.

Ad oggi, purtroppo, troppi monumenti pagano il peso di interventi impropri e subiscono la cancellazione di quel palinsesto che il documento architettonico rappresenta.
A tal proposito bisogna tener conto del fatto che, nel restauro, quando si parla di progetto, non lo si può mai definire esecutivo, questo perché parlare di progetto esecutivo prescinderebbe dalla principale peculiarità dell’intervento, ossia dall’incognita nascosta che si trova sotto qualsiasi strato, sia esso pittorico o materiale.

Chiunque abbia visitato un cantiere di restauro, non può non essere rimasto affascinato da pezzi di legno che  affiorano, intonaci sgretolati, partizioni murarie che vengono fuori inaspettatamente e che celano una vita passata del monumento. Il tutto cela un significato nascosto.
Il pezzo di legno potrebbe alludere a più e più cose: un ’architrave, un dormiente o una catena, così come, un dipinto, potrebbe essere parte di una boiserie o cornice di un elemento figurativo più importante.

Per leggere quanto detto però, il restauro, un po’ per scarsa cultura un po’ per carenza economica, non si avvale di significative campagne di indagini diagnostiche e stratigrafiche, ma si limita a fare ricorso ad alcuni saggi, il più delle volte, tale operazione, come si suol dire, si compie strada facendo l’intervento, come si direbbe in medicina, in corpore vivi.

A ciò va aggiunta l’esperienza e il prezioso strumento della conoscenza, il miglior saggio al quale l’opera possa sottoporsi
  Restauro disvelativo della facciata della Chiesa di San Pietro

Purtroppo oggi le imprese di restauro sono ancora sfornite di professionisti formati su principi e metodologie da applicare nei restauri.
A questo proposito, è bene citare alcuni esempi emblematici di restauro, basti pensare a quello effettuato per la facciata della basilica di San Pietro a Roma, per la quale, da un’ attenta opera di pulitura, è stato possibile rinvenire la cromia originaria del manufatto per lungo tempo ignorata, ossia la cromia ocra originaria del manufatto, pertanto si è verificato un vero e proprio intervento di restauro disvelativo. 

Allo stesso modo, possiamo tener conto dell’intervento fatto per il campanile della Chiesa di Santa Chiara, che ha consentito di mettere in luce i caratteri gotici che oggi leggiamo, che attestano l’appartenenza del campanile alla prima fase di edificazione del manufatto.
 

messa in luce della iscrizione gotica
Campanile della Chiesa di Santa Chiara

Si evince da tali esempi che, un equilibrato e consapevole approccio al cantiere, che faccia tesoro di tecniche sia tradizionali che innovative, porterebbe probabilmente ad un recupero più consapevole del senso dell’antica e moderna arte del costruire.
Lo specialista in restauro, dovrà, non solo valutare la situazione con occhio critico ed esperto, ma dovrà saper dirigere uomini, quindi non dovrà programmare un comando al computer ma dovrà coordinare persone con conoscenze e intuizioni proprie, uomini e donne che conoscano il cantiere meglio di un neofita.

E’ in questo modo che è possibile giungere al “cantiere della conoscenza” fatto di interdisciplinarietà, ovvero l’architetto specialista in restauro deve essere in grado di dialogare costruttivamente con chimici, fisici, petrografi, strutturisti, archeologi e storici dell’arte e, per farlo, deve avvalersi di un linguaggio che funga da base di un qualsivoglia intervento, non procedere quindi per episodi, bensì preferire al singolo intervento, una serie di operazioni sistematiche volte a definire “il” linguaggio.

Concludo riportando una significativa espressione di Ruggero Pentrella, architetto, professore e soprintendente,  il quale, in un incontro con Beppe Fragasso disse: “se mi si chiedesse di aprire una finestra sulla Cupola del Brunelleschi per un qualunque uso non consentirei nella maniera più assoluta di farlo, ma se qualcuno mi chiedesse di aprire cinque finestre che siano frutto di un progetto, di un linguaggio, di una grammatica del costruire, potrei prendere in considerazione tale proposta”.  


Questo per dire che, spesso l’architetto tende ad aprire una finestra perché diventi il segno del proprio intervento di restauro, ma, solo quando sarà capace di aprire cinque finestre a ragione, allora sarà fiero e all’ altezza di definirsi architetto specialista in restauro.
                                                                                                                                                                   

Romina Muccio 

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